martedì 19 aprile 2016

I sistemi elettorali. Appunti per una lezione accademica

«Le elezioni sono l’istituzione che definisce la democrazia moderna» [Katz 1997].
«Le elezioni sono procedure istituzionalizzate per la scelta di rappresentanti selezionati fra alcuni o tutti i membri ufficialmente riconosciuti di una organizzazione» [Rokkan 1970, traduz. it. 1982, p. 231].
«Le elezioni sono un mezzo per istituire una competizione per una carica pubblica e per valutare l’operato del Governo in carica» [Hague & Harrop 2011, p. 157].

Le elezioni sono meccanismi congegnati per tradurre i voti in seggi, cioè in cariche pubbliche. Le definizioni riportate qui sopra fanno riferimento prevalentemente alle elezioni che avvengono in sistemi democratici. Una previsione come nella citazione tratta dal manuale di Hague e Harrop presenta almeno due concetti che pare difficile affibbiare ad un modello di regime non democratico. Gli attributi della “competizione” e della “valutazione dell’operato del Governo” (attività che avviene nei Parlamenti per compito di un’opposizione responsabile[?]) sono infatti tipici delle democrazie ed in particolare delle democrazie liberali. Essi, peraltro, qualificano una democrazia di qualità: la “valutazione dell’operato del Governo” rinvia, necessariamente, al concetto di «accountability interistituzionale» (Almagisti 2016) che costituisce una delle dimensioni di variazione della qualità democratica.
A tutt’oggi, nella maggior parte delle democrazie viene adottato il suffragio universale che ha esteso il diritto di voto a tutti i cittadini senza distinzioni di sesso, razza, censo, opinioni politiche, ecc., con l’unico limite dato da un criterio anagrafico: occorre aver compiuto 18 anni per recarsi alle urne ed esprimere il voto. Questo aspetto è comunemente noto come universalità del voto.

Elezioni parlamentari

Come ricordano Hague e Harrop, la questione fondamentale quando si parla di sistemi elettorali è valutare se la formula per convertire i voti in seggi è più o meno proporzionale. La proporzionalità è quel criterio in base al quale il voto di Tizio vale quanto quello di Caio (principio dell’uguaglianza nel voto). Tale principio, per cui «tutti gli elettori hanno lo stesso peso: rispecchia una concezione pluralistica della rappresentanza, cioè l’idea che a competere siano soggetti collettivi (i partiti) e non semplici individui». Al contrario, i sistemi non proporzionali si fondano sull’assunto che «la volontà della maggioranza degli elettori è l’unica a contare nell’attribuzione dei seggi» [Hague e Harrop, 158]. Come si comprende già da queste prime battute, sono due le grandi famiglie di sistemi elettorali: quelli proporzionali e quelli maggioritari.

I sistemi maggioritari

I sistemi maggioritari, a loro volta, si distinguono in due sotto-famiglie, in base alla formula elettorale adottata. I sistemi maggioritari basati sulla maggioranza relativa (plurality) consistono in una formula denominata uninominale secco (o, anche, first past the post), poiché la competizione avviene unicamente in un turno: chi ottiene la maggioranza, anche relativa, vince e ottiene il seggio in palio. Questo sistema è prevalentemente utilizzato nei Paesi di cultura politica britannica quali la Gran Bretagna, l’India, gli Stati Uniti. L’effetto premiante, dato dalla conquista del seggio anche con una maggioranza relativa, è visto come positivo da tutti coloro che ritengono fondamentale la questione della stabilità del Governo.
Generalmente, i dibattiti riguardanti i sistemi elettorali si strutturano attorno alla dicotomia stabilità-rappresentanza – laddove la «stabilità» è riferita alla solidità del Governo e ha a che fare con la sua capacità di durare nel tempo, mentre la «rappresentanza» riguarda la composizione del Parlamento, più o meno rappresentativo dell’eterogeneità dei gruppi presenti nella società. I sostenitori della stabilità del Governo sono maggiormente disposti a sacrificare la rappresentanza e per questo motivo sostengono vivamente i sistemi maggioritari, mentre chi a cuore la rappresentanza è più incline verso i sistemi proporzionali che, tuttavia, tendono a incoraggiare la formazione di Governi talmente eterogenei da essere strutturalmente deboli.
Una grossa critica alla formula plurality si focalizza sulla possibilità che il partito che ottiene la maggioranza relativa nel collegio in cui conquista il seggio potrebbe risultare sovrarappresentato a livello nazionale, pur conseguendo meno voti, in valore assoluto (In questo caso si parla di «efficienza» nella distribuzione dei voti), di un partito che ottiene di fatto meno seggi ma è territorialmente più omogeneo (poco efficiente nella distribuzione del voto. Es: partito liberale in Gran Bretagna). Infatti, se ad esempio in un collegio corrono quattro candidati di quattro liste differenti, è possibile, almeno in teoria, che il vincitore risulti espressione di appena il 25% +1 dei votanti.
Altri tre punti deboli della formula plurality sono i seguenti: a) incoraggia il voto tattico: se gli elettori del partito avvertono che il partito di riferimento è troppo debole nel collegio, orienteranno il loro voto a favore di un partito alternativo; b) esso tratta i partiti minori in maniera disomogenea: come abbiamo già visto, i partiti minori con una base elettorale ben distribuita (ma, quindi, poco efficiente) sono penalizzati; c) il fenomeno del gerrymandering, in base al quale i candidati tagliano territorialmente la circoscrizione in cui si presentano sulla base delle loro personali esigenze elettorali: di fatto, si usa dire, sono i candidati a scegliere gli elettori e non il contrario, come dovrebbe avvenire.
Rispetto alla formula plurality, la formula majority appare più equa. Essa si basa, infatti, sul principio che a conquistare il seggio debba essere un candidato che necessariamente ottenga la maggioranza assoluta di voti. Se questo non avviene al primo turno, i due candidati che si sono classificati in testa si scontrano in un ulteriore turno detto «di ballottaggio». A questo punto, per una ragione meramente aritmetica, chi conquista il seggio rappresenta la maggioranza assoluta dei votanti.
Così congegnato, il sistema majority dovrebbe incoraggiare l’espressione di un voto «sincero» al primo turno, mentre al secondo turno gli elettori che non hanno visto il passaggio del proprio candidato favorito possono optare per una scelta strategica in favore del candidato meno sgradito [Pasquino 2003, 142].
I sistemi maggioritari di tipo majority si suddividono a loro volta in sistemi a doppio turno «aperto» e sistemi a doppio turno «chiuso». I primi si caratterizzano per il fatto di allargare la partecipazione al secondo turno anche a candidati che non si sono presentati al primo (come nella Terza Repubblica francese, 1870-1940) e quindi funzionano, di fatto, con la formula plurality; i secondi, invece, sono forse quelli più diffusi e vedono la competizione al secondo turno solo fra i primi due candidati risultati dal primo turno. La particolarità – e, forse, il vantaggio – del sistema aperto consiste in almeno due aspetti: a) dal punto di vista dell’elettore, la possibilità di optare per una scelta strategica in funzione della distribuzione dei voti al primo turno. Questo gli permette un esame più accurato in vista di un probabile successo del «meno peggio»; b) dal punto di vista dei candidati, la possibilità di effettuare accordi di «desistenza» con candidati di partiti considerati «vicini» per ideologia o per programma: al secondo turno, un partito rinuncia a far gareggiare un candidato non particolarmente forte allo scopo di favorire un candidato affine dal punto di vista politico, ottenendo spesso in cambio reciprocità di desistenza in un altro collegio.

I sistemi proporzionali

L’idea della rappresentanza proporzionale era stata concepita in origine per offrire rappresentanza a una serie di partiti e non quella di eleggere un candidato per collegio. Idealmente, un sistema proporzionale puro dovrebbe tramutare proporzionalmente i voti in seggi: se un partito ottiene il 40% dei voti, avrà il 40% dei seggi all’assemblea. Banalmente, si può osservare, più grande è il collegio, più proporzionale è il risultato. Ad esempio, in Paesi come Israele e Olanda la composizione delle assemblee nazionali risulta da un sistema di proporzionalità pura: rispettivamente, 120 e 150 seggi che rappresentano fedelmente la consistenza elettorale delle liste presenti. Il problema è che, dal momento che con questo sistema è difficile che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei voti per governare, ogni Paese ha introdotto formule o meccanismi che, di fatto, riducono profondamente il criterio di rappresentanza proporzionale, svilendone un po’ il senso per ragioni di necessità legate alla governabilità.
Il primo meccanismo che riduce fortemente la proporzionalità del sistema riguarda la previsione di circoscrizioni o collegi plurinominali. Più numerose sono le circoscrizioni, più il voto risulta sproporzionalizzato. Un altro meccanismo che vuole evitare la frammentazione del sistema partitico è la previsione di soglie di sbarramento per l’accesso alle assemblee, favorendo i partiti forti e andando, quindi, in parte, a minare la ratio stessa della sua esistenza.
L’insoddisfazione tanto per i sistemi di rappresentanza proporzionale quanto per i maggioritari ha spinto in alcuni casi il legislatore ad optare per sistemi «misti», come ad esempio in Italia (con il sistema detto Mattarellum, in vigore dal 1993 al 2005) ed in Nuova Zelanda.

Elezioni nei Paesi non democratici

I paesi democratici non sono gli unici ad organizzare le elezioni. Anche le democrazie illiberali e molti Paesi non democratici organizzano tornate elettorali che, tuttavia, hanno scopi diversi da quelle organizzate nelle democrazie. Nei paesi non democratici, nei regimi dittatoriali, militari, autoritari e totalitari, le elezioni sono un mezzo generalmente utilizzato dal regime sia per meglio controllare l’opposizione, schiacciandola definitivamente una volta conclusasi l’operazione elettorale, sia per legittimare in qualche modo a livello internazionale il regime stesso, proiettando un’immagine in qualche maniera positiva dello stesso. Vengono organizzati pedinamenti dei candidati di opposizione al regime, vengono effettuate pesanti restrizioni di accesso all’elettorato passivo per candidati potenzialmente pericolosi per il regime. Le elezioni nei regimi non democratici servono a «proiettare tanto l’illusione che sia possibile scegliere, quanto un’immagine del potere come ineluttabile, assicurandosi la vittoria senza bisogno di falsificare gli scrutini (opzione peraltro praticabile, se tutte le altre falliscono)» [Hague e Harrop, p. 173].

Elezioni presidenziali

Praticamente in tutti i regimi presidenziali e semi-presidenziali, la figura del Presidente della Repubblica è una carica elettiva. La distinzione è fra elezione diretta ed elezione indiretta, che avviene nei restanti casi. Per la sua natura di essere squisitamente individuale (la Presidenza appartiene ad un unico soggetto), l’elezione del presidente non può che avvenire col ricorso al sistema maggioritario (è strutturalmente impossibile che avvenga col metodo proporzionale). Nel caso delle elezioni dirette, la formula majority è quella generalmente adottata. Nel caso delle elezioni indirette, il ricorso ad un organo apposito – come, ad esempio, l’Executive College negli Stati Uniti – funge da «cuscinetto contro la volubilità popolare» [Hague e Harrop, 165]. Altri tre aspetti risultano rilevanti quando si parla di elezioni presidenziali: a) la durata del mandato; b) la rinnovabilità, che spesso è ammessa per una seconda volta; c) il collegamento con altre elezioni, ad esempio quando le elezioni presidenziali coincidono con quelle parlamentari.

I referendum

Il referendum si configura come un’integrazione al principio della democrazia rappresentativa e si qualifica come un istituto di democrazia diretta o partecipata, tramite il quale i cittadini direttamente sono chiamati ad esprimersi, spesso tramite l’apposizione di una crocetta su un “sì” o su un “no” in risposta ad un quesito su questioni che il legislatore, per previsione di solito costituzionale, delega per diverse ragioni al popolo. Il referendum può essere di vari tipi: abrogativo di legge statale, confermativo di legge di revisione costituzionale; può avere un diverso valore quanto all’esito: vincolante (obbligando giuridicamente il legislatore a conformarsi all’esito del referendum) e consultivo (non avente valore giuridicamente vincolante, ma semmai politicamente).

Gli effetti dei sistemi elettorali sul sistema politico-partitico

Spesso l’importanza dei sistemi elettorali è stata sottovalutata (Sartori 1995). In realtà, Giovanni Sartori ha chiarito che i sistemi elettorali si possono considerare anche come una variabile indipendente, da cui dipendono svariati esiti del sistema politico di un Paese. Maurice Duverger è stato il primo a tentare di enunciare delle «leggi» (formule o schemi) in base alle quali si assumeva il sistema elettorale quale variabile indipendente in grado di condizionare il sistema politico-partitico, determinando il numero dei partiti presenti: a) il sistema maggioritario a un turno tende al dualismo dei partiti; b) il sistema maggioritario a doppio turno e la rappresentanza proporzionale tendono al multipartitismo.

Sartori ha osservato che i sistemi elettorali dispiegano i propri effetti sia sugli elettori – orientandoli e financo manipolandoli – e sul sistema dei partiti, determinandone il numero. Ma per Sartori, che intende andare oltre le intuizioni di Duverger, il concetto di «numero» dei partiti non rinvia necessariamente a quanti partiti sono effettivamente presenti nelle assemblee, ma rinvia al criterio con cui contarli: la «rilevanza» del partito, vale a dire se ha un potenziale di coalizione ovvero di ricatto. Il potenziale di coalizione, non avendo il quale un partito è definito minore o irrilevante, è legato alla sua qualità di essere determinante per una qualsiasi coalizione di maggioranza; il potere di ricatto o di intimidazione, invece, è proprio di quel partito che non fa parte della maggioranza di Governo, eppure in grado di condizionare ugualmente gli equilibri di Governo lungo l’asse destra-sinistra, grazie alla disponibilità di voti, di rappresentanza di interessi, di numero di seggi parlamentari.

Bibliografia citata

Almagisti M. (2016), Una democrazia possibile. Politica e territorio nell'Italia contemporanea, Carocci editore
Hague R., Harrop M. (2011), Manuale di scienza politica, Mc Graw-Hill
Katz R. S. (1997), Democracy and elections, Oxford University Press
Pasquino G. (2003), Nuovo corso di scienza politica, Il Mulino, Bologna
Rokkan S. (1982), Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna
Sartori G. (1995), Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna

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