«Le elezioni sono l’istituzione che
definisce la democrazia moderna» [Katz 1997].
«Le elezioni sono procedure
istituzionalizzate per la scelta di rappresentanti selezionati fra alcuni o
tutti i membri ufficialmente riconosciuti di una organizzazione» [Rokkan 1970,
traduz. it. 1982, p. 231].
«Le elezioni sono un mezzo per
istituire una competizione per una carica pubblica e per valutare l’operato del
Governo in carica» [Hague & Harrop 2011, p. 157].
Le elezioni sono meccanismi
congegnati per tradurre i voti in seggi, cioè in cariche pubbliche. Le
definizioni riportate qui sopra fanno riferimento prevalentemente alle elezioni
che avvengono in sistemi democratici. Una previsione come nella citazione tratta
dal manuale di Hague e Harrop presenta almeno due concetti che pare difficile
affibbiare ad un modello di regime non democratico. Gli attributi della
“competizione” e della “valutazione dell’operato del Governo” (attività che
avviene nei Parlamenti per compito di un’opposizione responsabile[?]) sono
infatti tipici delle democrazie ed in particolare delle democrazie liberali. Essi,
peraltro, qualificano una democrazia di qualità: la “valutazione dell’operato
del Governo” rinvia, necessariamente, al concetto di «accountability interistituzionale» (Almagisti 2016) che costituisce
una delle dimensioni di variazione della qualità democratica.
A tutt’oggi, nella maggior parte
delle democrazie viene adottato il suffragio universale che ha esteso il
diritto di voto a tutti i cittadini senza distinzioni di sesso, razza, censo,
opinioni politiche, ecc., con l’unico limite dato da un criterio anagrafico:
occorre aver compiuto 18 anni per recarsi alle urne ed esprimere il voto.
Questo aspetto è comunemente noto come universalità
del voto.
Elezioni parlamentari
Come ricordano Hague e Harrop, la
questione fondamentale quando si parla di sistemi elettorali è valutare se la
formula per convertire i voti in seggi è più o meno proporzionale. La proporzionalità è quel criterio in base
al quale il voto di Tizio vale quanto quello di Caio (principio dell’uguaglianza nel voto). Tale principio,
per cui «tutti gli elettori hanno lo stesso peso: rispecchia una concezione pluralistica della rappresentanza,
cioè l’idea che a competere siano soggetti collettivi (i partiti) e non
semplici individui». Al contrario, i sistemi non proporzionali si fondano
sull’assunto che «la volontà della maggioranza degli elettori è l’unica a
contare nell’attribuzione dei seggi» [Hague e Harrop, 158]. Come si comprende
già da queste prime battute, sono due le grandi famiglie di sistemi elettorali:
quelli proporzionali e quelli maggioritari.
I sistemi maggioritari
I sistemi maggioritari, a loro
volta, si distinguono in due sotto-famiglie, in base alla formula elettorale
adottata. I sistemi maggioritari basati sulla maggioranza relativa (plurality) consistono in una formula
denominata uninominale secco (o, anche, first
past the post), poiché la competizione avviene unicamente in un turno: chi
ottiene la maggioranza, anche relativa, vince e ottiene il seggio in palio.
Questo sistema è prevalentemente utilizzato nei Paesi di cultura politica
britannica quali la Gran Bretagna, l’India, gli Stati Uniti. L’effetto
premiante, dato dalla conquista del seggio anche con una maggioranza relativa,
è visto come positivo da tutti coloro che ritengono fondamentale la questione
della stabilità del Governo.
Generalmente, i dibattiti
riguardanti i sistemi elettorali si strutturano attorno alla dicotomia
stabilità-rappresentanza – laddove la «stabilità» è riferita alla solidità del
Governo e ha a che fare con la sua capacità di durare nel tempo, mentre la
«rappresentanza» riguarda la composizione del Parlamento, più o meno
rappresentativo dell’eterogeneità dei gruppi presenti nella società. I
sostenitori della stabilità del Governo sono maggiormente disposti a
sacrificare la rappresentanza e per questo motivo sostengono vivamente i
sistemi maggioritari, mentre chi a cuore la rappresentanza è più incline verso
i sistemi proporzionali che, tuttavia, tendono a incoraggiare la formazione di
Governi talmente eterogenei da essere strutturalmente deboli.
Una grossa critica alla formula plurality si focalizza sulla possibilità
che il partito che ottiene la maggioranza relativa nel collegio in cui
conquista il seggio potrebbe risultare sovrarappresentato a livello nazionale,
pur conseguendo meno voti, in valore assoluto (In questo caso si parla di
«efficienza» nella distribuzione dei voti), di un partito che ottiene di fatto
meno seggi ma è territorialmente più omogeneo (poco efficiente nella
distribuzione del voto. Es: partito liberale in Gran Bretagna). Infatti, se ad
esempio in un collegio corrono quattro candidati di quattro liste differenti, è
possibile, almeno in teoria, che il vincitore risulti espressione di appena il
25% +1 dei votanti.
Altri tre punti deboli della
formula plurality sono i seguenti: a)
incoraggia il voto tattico: se gli elettori del partito avvertono che il
partito di riferimento è troppo debole nel collegio, orienteranno il loro voto
a favore di un partito alternativo; b) esso tratta i partiti minori in maniera
disomogenea: come abbiamo già visto, i partiti minori con una base elettorale
ben distribuita (ma, quindi, poco efficiente) sono penalizzati; c) il fenomeno
del gerrymandering, in base al quale
i candidati tagliano territorialmente la circoscrizione in cui si presentano
sulla base delle loro personali esigenze elettorali: di fatto, si usa dire,
sono i candidati a scegliere gli elettori e non il contrario, come dovrebbe
avvenire.
Rispetto alla formula plurality, la formula majority appare più equa. Essa si basa,
infatti, sul principio che a conquistare il seggio debba essere un candidato
che necessariamente ottenga la
maggioranza assoluta di voti. Se questo non avviene al primo turno, i due
candidati che si sono classificati in testa si scontrano in un ulteriore turno
detto «di ballottaggio». A questo punto, per una ragione meramente aritmetica,
chi conquista il seggio rappresenta la maggioranza assoluta dei votanti.
Così congegnato, il sistema majority dovrebbe incoraggiare
l’espressione di un voto «sincero» al primo turno, mentre al secondo turno gli
elettori che non hanno visto il passaggio del proprio candidato favorito
possono optare per una scelta strategica in favore del candidato meno sgradito
[Pasquino 2003, 142].
I sistemi maggioritari di tipo majority si suddividono a loro volta in
sistemi a doppio turno «aperto» e sistemi a doppio turno «chiuso». I primi si
caratterizzano per il fatto di allargare la partecipazione al secondo turno
anche a candidati che non si sono presentati al primo (come nella Terza
Repubblica francese, 1870-1940) e quindi funzionano, di fatto, con la formula plurality; i secondi, invece, sono forse
quelli più diffusi e vedono la competizione al secondo turno solo fra i primi
due candidati risultati dal primo turno. La particolarità – e, forse, il
vantaggio – del sistema aperto consiste in almeno due aspetti: a) dal punto di
vista dell’elettore, la possibilità di optare per una scelta strategica in
funzione della distribuzione dei voti al primo turno. Questo gli permette un
esame più accurato in vista di un probabile successo del «meno peggio»; b) dal
punto di vista dei candidati, la possibilità di effettuare accordi di «desistenza»
con candidati di partiti considerati «vicini» per ideologia o per programma: al
secondo turno, un partito rinuncia a far gareggiare un candidato non
particolarmente forte allo scopo di favorire un candidato affine dal punto di
vista politico, ottenendo spesso in cambio reciprocità di desistenza in un
altro collegio.
I sistemi proporzionali
L’idea della rappresentanza
proporzionale era stata concepita in origine per offrire rappresentanza a una
serie di partiti e non quella di eleggere un candidato per collegio.
Idealmente, un sistema proporzionale puro dovrebbe tramutare proporzionalmente
i voti in seggi: se un partito ottiene il 40% dei voti, avrà il 40% dei seggi
all’assemblea. Banalmente, si può osservare, più grande è il collegio, più
proporzionale è il risultato. Ad esempio, in Paesi come Israele e Olanda la
composizione delle assemblee nazionali risulta da un sistema di proporzionalità
pura: rispettivamente, 120 e 150 seggi che rappresentano fedelmente la
consistenza elettorale delle liste presenti. Il problema è che, dal momento che
con questo sistema è difficile che un partito ottenga la maggioranza assoluta
dei voti per governare, ogni Paese ha introdotto formule o meccanismi che, di
fatto, riducono profondamente il criterio di rappresentanza proporzionale,
svilendone un po’ il senso per ragioni di necessità legate alla governabilità.
Il primo meccanismo che riduce
fortemente la proporzionalità del sistema riguarda la previsione di
circoscrizioni o collegi plurinominali. Più numerose sono le circoscrizioni,
più il voto risulta sproporzionalizzato. Un altro meccanismo che vuole evitare
la frammentazione del sistema partitico è la previsione di soglie di
sbarramento per l’accesso alle assemblee, favorendo i partiti forti e andando,
quindi, in parte, a minare la ratio
stessa della sua esistenza.
L’insoddisfazione tanto per i
sistemi di rappresentanza proporzionale quanto per i maggioritari ha spinto in
alcuni casi il legislatore ad optare per sistemi «misti», come ad esempio in
Italia (con il sistema detto Mattarellum,
in vigore dal 1993 al 2005) ed in Nuova Zelanda.
Elezioni nei Paesi non democratici
I paesi democratici non sono gli
unici ad organizzare le elezioni. Anche le democrazie illiberali e molti Paesi
non democratici organizzano tornate elettorali che, tuttavia, hanno scopi
diversi da quelle organizzate nelle democrazie. Nei paesi non democratici, nei
regimi dittatoriali, militari, autoritari e totalitari, le elezioni sono un
mezzo generalmente utilizzato dal regime sia per meglio controllare
l’opposizione, schiacciandola definitivamente una volta conclusasi l’operazione
elettorale, sia per legittimare in qualche modo a livello internazionale il
regime stesso, proiettando un’immagine in qualche maniera positiva dello
stesso. Vengono organizzati pedinamenti dei candidati di opposizione al regime,
vengono effettuate pesanti restrizioni di accesso all’elettorato passivo per
candidati potenzialmente pericolosi per il regime. Le elezioni nei regimi non
democratici servono a «proiettare tanto l’illusione che sia possibile
scegliere, quanto un’immagine del potere come ineluttabile, assicurandosi la
vittoria senza bisogno di falsificare gli scrutini (opzione peraltro
praticabile, se tutte le altre falliscono)» [Hague e Harrop, p. 173].
Elezioni presidenziali
Praticamente in tutti i regimi
presidenziali e semi-presidenziali, la figura del Presidente della Repubblica è
una carica elettiva. La distinzione è fra elezione diretta ed elezione
indiretta, che avviene nei restanti casi. Per la sua natura di essere
squisitamente individuale (la Presidenza appartiene ad un unico soggetto),
l’elezione del presidente non può che avvenire col ricorso al sistema
maggioritario (è strutturalmente impossibile che avvenga col metodo
proporzionale). Nel caso delle elezioni dirette, la formula majority è quella generalmente adottata.
Nel caso delle elezioni indirette, il ricorso ad un organo apposito – come, ad
esempio, l’Executive College negli Stati Uniti – funge da «cuscinetto contro la
volubilità popolare» [Hague e Harrop, 165]. Altri tre aspetti risultano
rilevanti quando si parla di elezioni presidenziali: a) la durata del mandato;
b) la rinnovabilità, che spesso è ammessa per una seconda volta; c) il
collegamento con altre elezioni, ad esempio quando le elezioni presidenziali
coincidono con quelle parlamentari.
I referendum
Il referendum si configura come
un’integrazione al principio della democrazia rappresentativa e si qualifica
come un istituto di democrazia diretta o partecipata, tramite il quale i cittadini
direttamente sono chiamati ad esprimersi, spesso tramite l’apposizione di una
crocetta su un “sì” o su un “no” in risposta ad un quesito su questioni che il
legislatore, per previsione di solito costituzionale, delega per diverse
ragioni al popolo. Il referendum può essere di vari tipi: abrogativo di legge
statale, confermativo di legge di revisione costituzionale; può avere un
diverso valore quanto all’esito: vincolante (obbligando giuridicamente il
legislatore a conformarsi all’esito del referendum) e consultivo (non avente
valore giuridicamente vincolante, ma semmai politicamente).
Gli effetti dei sistemi elettorali sul sistema politico-partitico
Spesso l’importanza dei sistemi
elettorali è stata sottovalutata (Sartori 1995). In realtà, Giovanni Sartori ha
chiarito che i sistemi elettorali si possono considerare anche come una
variabile indipendente, da cui dipendono svariati esiti del sistema politico di
un Paese. Maurice Duverger è stato il primo a tentare di enunciare delle
«leggi» (formule o schemi) in base alle quali si assumeva il sistema elettorale
quale variabile indipendente in grado di condizionare il sistema
politico-partitico, determinando il numero dei partiti presenti: a) il sistema
maggioritario a un turno tende al dualismo dei partiti; b) il sistema
maggioritario a doppio turno e la rappresentanza proporzionale tendono al
multipartitismo.
Sartori ha osservato che i sistemi
elettorali dispiegano i propri effetti sia sugli elettori – orientandoli e
financo manipolandoli – e sul sistema dei partiti, determinandone il numero. Ma
per Sartori, che intende andare oltre le intuizioni di Duverger, il concetto di
«numero» dei partiti non rinvia necessariamente a quanti partiti sono effettivamente presenti nelle assemblee, ma
rinvia al criterio con cui contarli: la «rilevanza» del partito, vale a dire se
ha un potenziale di coalizione ovvero di ricatto. Il potenziale di coalizione,
non avendo il quale un partito è definito minore o irrilevante, è legato alla
sua qualità di essere determinante per una qualsiasi coalizione di maggioranza;
il potere di ricatto o di intimidazione, invece, è proprio di quel partito che
non fa parte della maggioranza di Governo, eppure in grado di condizionare
ugualmente gli equilibri di Governo lungo l’asse destra-sinistra, grazie alla
disponibilità di voti, di rappresentanza di interessi, di numero di seggi parlamentari.
Bibliografia citata
Almagisti M. (2016), Una democrazia possibile. Politica e territorio nell'Italia contemporanea, Carocci editore
Hague R., Harrop M. (2011), Manuale di scienza politica, Mc Graw-Hill
Katz R. S. (1997), Democracy and elections, Oxford University Press
Pasquino G. (2003), Nuovo corso di scienza politica, Il Mulino, Bologna
Rokkan S. (1982), Cittadini, elezioni, partiti, Il Mulino, Bologna
Sartori G. (1995), Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna
Nessun commento:
Posta un commento