(recensione al libro di Damiano Palano, La democrazia senza partiti, Edizioni Vita & Pensiero, 2015. Già apparsa sul sito web dell'Istituto di Politica e disponibile al seguente link: http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2015/11/05/una-democrazia-senza-partiti-sullultimo-libro-di-damiano-palano/)
Qual è lo stato di salute dei
partiti nei regimi democratici? Che grado di legittimità riscuotono all’interno
della società? Che parabola hanno seguito e quale bilancio è possibile tracciarne?
Sono questi i quesiti di fondo a cui il nuovo libro di Damiano Palano tenta di
rispondere. Come ricorda Norberto Bobbio, fin dalla loro nascita – databile fra
la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso – i partiti sono concepiti
come strutture fondamentali per l’aggregazione delle domande provenienti dalla
società, quei corpi intermedi la cui funzione viene talmente magnificata al
punto che per lungo tempo vengono considerati indispensabili per la
sopravvivenza stessa della democrazia. Fotografati inizialmente come strutture
oligarchiche – secondo la celebre definizione di Robert Michels – i partiti si
celano in realtà dietro ad una facciata di apparente democrazia. Secondo Max
Weber, che per primo osserva il tramonto del «partito di notabili» e l’avvento
del «partito di massa», grazie alla loro progressiva «burocratizzazione», i
partiti finiscono per esprimere un ceto di veri e propri «professionisti della
politica» e di leader carismatici in grado di controllare sempre più il
consenso grazie al cosiddetto «potere della cricca», un preludio all’avvento
della democrazia plebiscitaria.
In base alla rigorosa ricostruzione
di Palano (nella foto), osserviamo che durante il Novecento i partiti subiscono una vera e
propria «metamorfosi». Negli anni Sessanta il politologo tedesco Otto
Kirchheimer è il primo a notare che a partire dal Secondo dopoguerra i grandi
partiti di massa, confessionali e di classe, sono investiti dalla tendenza a
trasformarsi in organizzazioni che puntano sul più vasto consenso possibile,
allo scopo di ingigantirsi all’interno della società. Le principali
caratteristiche del moderno catch-all
party (il partito «pigliatutto» o, come ama insistere Gianfranco Pasquino,
«pigliatutti», a sottolinearne la vocazione ad acciuffare il sostegno da parte
di qualsiasi cittadino-elettore) consistono nella drastica riduzione del
bagaglio ideologico, nella svalutazione del ruolo degli iscritti, nel
rafforzamento degli elementi di vertice. Queste trasformazioni producono una
costante disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti che finiscono per
perdere iscritti. Se negli anni Sessanta un cittadino su dieci è membro di un
partito, negli anni Novanta la cifra si dimezza per assestarsi al 3% della
popolazione nello scorso decennio. La progressiva perdita di identità dei
vecchi partiti di massa, dovuta anche ai perfezionamenti nel campo della
tecnologia e alla diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione (in primis, la televisione) porta altri
due studiosi, Richard Katz e Peter Mair, a mettere in luce una nuova
evoluzione. Si tratta dei partiti-cartello (cartel-party),
soggetti che, come le imprese in economia, si mettono d’accordo per la
spartizione delle risorse. Queste ultime, non potendo più essere reperite in
maniera copiosa nella società, vengono ricercate all’interno delle istituzioni.
I partiti, la cui attenzione prima veniva rivolta agli iscritti mentre ora si
sposta sempre più verso gli elettori, si allontanano progressivamente dalla
società avvicinandosi sempre più allo Stato e divenendone parte integrante.
A questa crescente divaricazione
dei partiti dalla società corrisponde la definitiva trasformazione dei partiti
in agenzie clientelari che hanno ormai perso quella funzione originaria di
«ponte» fra società e Stato destinato, di fatto, a dare rappresentanza ai
diversi segmenti in cui è strutturata la società stessa. Il cittadino-elettore,
in sostanza, diviene un attore passivo che, come il pubblico che assiste ad uno
spettacolo teatrale, si limita a reagire offrendo la propria approvazione o il
proprio dissenso: è la «democrazia del pubblico» ben descritta da Bernard
Manin, ovvero la nuova forma della «democrazia plebiscitaria» che costituisce
uno di quegli aspetti di quella che Colin Crouch ha battezzato
«postdemocrazia». Quel rapporto di fiducia che un tempo legava le grandi masse
ai capi non esiste più, lasciando spazio ad una crisi della leadership senza precedenti. Ma, avverte
Palano, tutto ciò non deve far pensare al tramonto definitivo dei partiti. Al
contrario, i partiti sono vivi e vegeti, dispongono di risorse sempre maggiori
con le quali sono ormai riusciti ad incastonarsi nelle strutture statali; non è
per i partiti, bensì per la loro democrazia interna che viene intonato il «requiem».
Ad esacerbare in maniera
irreversibile la crisi di legittimazione dei partiti vi sono due fenomeni fra
loro strettamente connessi, le cui radici risalgono almeno alle difficoltà
economico-sociali degli anni Settanta: la crisi fiscale e la crisi di
governabilità. In particolare, quanto alla prima, nota Palano, va osservato che
la crescita della pressione tributaria ed il conseguente mancato contenimento
della spesa pubblica, unito al generale rallentamento della crescita economica
non ha fatto altro che contribuire all’aumento della sfiducia nei confronti
della politica. La perdita di centralità della sezione – riflesso del consenso
degli iscritti ed emblema della reale forza del vecchio partito di massa – e la
progressiva affermazione di forme di democrazia diretta che entrano in
concorrenza con quelle della democrazia rappresentativa costituiscono a tutti
gli effetti la cifra della crisi che le democrazie occidentali (e quindi non
soltanto quella italiana) da lungo tempo sperimentano.
La ricostruzione della parabola dei
partiti offerta da Palano potrebbe apparire piuttosto sconfortante. Occorre, è
vero, prendere atto che la stagione dei grandi partiti di massa si è chiusa da
tempo per effetto del trionfo del «partito liquido», un soggetto che rispetto
ai partiti tradizionali presenta un carattere fluido della propria identità,
tanto forte a guisa di una merce ricercata dai consumatori quanto effimera
nella sua capacità di durare nel tempo. I partiti, urge constatarlo, risultano
vittime di un vero e proprio «deficit simbolico», incapaci anche solo lontanamente
di rappresentare politicamente la società, di plasmarla, di veicolare le
immagini collettive, di alimentare le passioni, di strutturare i conflitti. Ma
benché ne tracci un bilancio sostanzialmente negativo, Palano sembra lasciare
adito a qualche timido spiraglio. La speranza dell’autore è riposta nel
«superamento del deficit culturale e simbolico dei partiti contemporanei» tale
per cui possa emergere «una sorta di “Principe postmoderno” in grado di
riconquistare una cultura politica capace di incarnare la vocazione incisa
nella stessa parola “partito”: la vocazione di dare voce alla “parte”, di dare
forma alla società, di costruire identificazioni in grado di durare nel tempo,
di alimentare l’immaginario democratico modificando i confini del “tutto”».
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