Scritto nel 2011, dopo il successo
del “sì” ai quattro quesiti referendari su acqua pubblica, nucleare e legittimo
impedimento, questo libretto di Ilvo Diamanti (Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, Il Mulino, 2011) suona come un j’accuse nei confronti di un certo approccio,
impostosi negli anni come dominante nella disciplina politologica. La tesi di
fondo, come suggerisce il sottotitolo, muove dalla presa d’atto che la scienza
politica, sapere specialistico fondato sull’osservazione dei fenomeni e sulla
formulazione di ipotesi da verificare empiricamente, non sempre azzecca le «previsioni».
Chiaramente, in questa sede diamo per scontato che le «previsioni» formulate nell’ambito
delle scienze sociali non possono minimamente essere associate a quelle
elaborate dalle scienze «fisiche». Come spiega bene Angelo Panebianco in un
saggio del 1989[1], rifacendosi
ad Hempel, le previsioni delle scienze sociali non sono altro che «generalizzazioni
su base statistica» (del tipo: se A, allora B nel 70% dei casi) e quindi più
assimilabili a induzioni di tipo probabilistico.
Diamanti imputa alla scienza
politica classica di aver adottato un approccio eccessivamente focalizzato
sulle istituzioni (lo Stato, i partiti, i Governi…) che si esaurisce in un’analisi
che esclude le variabili sociali, locali e personali, in base ad un rigido
steccato disciplinare che, tradizionalmente, secondo la distinzione operata da
Giovanni Sartori, ha separato la sociologia – scienza che studia la società per
spiegare la politica – dalla scienza politica – disciplina che, utilizzando un
approccio istituzionale, top-down, focalizzato
sugli attori che operano in politica, esamina come, viceversa, lo Stato
influenzi la società (p. 16-17). L’autore ritiene che, adottando questo
approccio di gran lunga dominante, gli scienziati politici abbiano totalmente perso
di vista ciò che accade a livello sociale, ritenendo che la società e le
relazioni interpersonali che in essa si sviluppano fossero variabili meramente
dipendenti dalla politica. Che l’interazione fra le due sfere, insomma, fosse
univoca e che le variabili sociali, locali, personali non meritassero in fin
dei conti di essere prese in considerazione, in quanto ritenute irrilevanti ai
fini della spiegazione e della previsione. Da ciò deriverebbe un ineluttabile quanto
deleterio scollamento, per le capacità esplicative e «predittive» della scienza
politica, fra «previsioni» e «realtà». Quello che in Antonio Gramsci, che riprendeva
una dicotomia da I promessi sposi, è
il trade-off fra «buon senso» e «senso
comune», ossia fra la convinzione, diffusa fra alcuni milanesi del Seicento e
ben narrata da Alessandro Manzoni, che gli untori non fossero realmente
portatori della peste e l’«opinione volgare diffusa» che in realtà fossero
proprio loro i responsabili e per questo andassero perseguitati. Una confusione,
quella fra il «buon senso» che all’epoca della peste restava celato per paura
del «senso comune», che si riproduce oggi all’interno della comunità
politologica, portando gli scienziati politici a sottovalutare o tralasciare la
rilevanza di variabili sociali, locali e personali, preferendo un’analisi «istituzionale»,
«macro», in conformità all’incedere
di un prepotente ed altrettanto fuorviante «senso comune», frutto, a sua volta,
del ricorso ad approcci teorici e strumenti metodologici del tutto «inadeguati»
a render conto dei fenomeni politici più rilevanti.
Sarebbero due, nello specifico, gli
oggetti di ricerca in cui gli scienziati politici avrebbero clamorosamente
sbagliato a formulare le loro analisi e «previsioni», ed è a partire da essi
che si sviluppa la polemica di Diamanti: le tipologie di voto e i connessi
rapporti fra elettori e partiti e le subculture politiche territoriali. Per
quanto riguarda il primo tema, a partire dalla classica tripartizione operata
in Italia da Gianfranco Pasquino e Arturo Parisi nel 1977[2],
la scienza politica avrebbe sottovalutato l’importanza, ancor oggi persistente e
diffusa, del cosiddetto «voto di appartenenza». La vulgata politologica che va
per la maggiore sostiene, infatti, che col crollo delle ideologie e dei sistemi
di credenza che un tempo strutturavano il voto, la tipologia del voto di
appartenenza avesse perso la sua pregnanza e la sua stessa diffusione su
territorio, a beneficio del voto di opinione e del voto di scambio. Il sistema
politico, in sostanza, si sarebbe avviato verso quella che Bernard Manin nel
1996 ha definito la «democrazia del pubblico»[3],
fondata, per dirla con Zygmund Bauman, sul «voto liquido» e caratterizzata da
un rapporto più diretto del leader
con il proprio elettorato di riferimento, senza altre mediazioni e tale per cui
il pubblico stesso si troverebbe impossibilitato a formulare domande politiche
ma si troverebbe limitato alla mera possibilità di reagire, proprio come fanno gli spettatori che, assistendo ad un'opera teatrale, si limitano a reagire alla recita degli attori. Chiaramente,
Diamanti considera monca questa spiegazione dell’evoluzione della politica
poiché essa non tiene conto del fatto che la politica, oggi forse ancor più di
ieri, costituisce una sorta di specchio della società ove le dinamiche e i vizi
del popolo si riproducono con estrema facilità. Laddove, «le campagne
elettorali più efficaci sono quelle che mirano non tanto a “cambiare il senso
comune”, ma, semmai a intercettarlo e a inscriverlo all’interno delle proprie
strategie politiche e comunicative. Oppure a ricostruirlo in base a nuovi frames che sfruttano le stesse linee di
divisione del passato, ricorrendo alle stesse parole, alle stesse formule.
Adeguatamente risemantizzate» (p. 96). Non ci spiegheremmo diversamente,
asserisce Diamanti, il successo di un personaggio come Silvio Berlusconi (e,
aggiungerei io, di leader quali Salvini, Grillo e Renzi): «lo dimostra il
ricorso al termine “comunismo”, divenuto di moda e utilizzato come mai era
avvenuto dopo la caduta del Muro di Berlino. Anche se, come abbiamo detto, ha
cambiato significato e contenuto. Più che un’ideologia, una dottrina, una
famiglia storica di partiti, evoca oggi l’ingerenza del pubblico, dello Stato,
del fisco. La rottura delle tradizioni locali, dei miti e dei riti religiosi.
Il “comunismo”, in altri termini, è stato trasferito da un piano politico e
dottrinale a un piano popolare e populista. Fatto defluire nel senso comune»
(pp. 96-97).

Le considerazioni or ora fatte non
significano, per tornare al libro di Ilvo Diamanti, che oggi gli elettori votino
in maniera irrazionale rispetto a ieri, quando il voto di appartenenza si
credeva fosse più diffuso, bensì lo fanno rispondendo ad una razionalità che,
come indicato da Max Weber, non è unicamente strumentale ma diventa assiologica,
ossia orientata ai valori e dai valori che si radicano fra le persone all’interno
della società (pp. 94-95). Proprio per questo motivo, secondo Ilvo Diamanti non
ha molto senso parlare di declino del voto di appartenenza. Le stesse subculture
politiche territoriali sono sopravvissute nel tempo senza tramontare e, nonostante
il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e il disfacimento del sistema dei
partiti della Prima Repubblica, molti orientamenti di voto dell’Italia di oggi
restano coerenti con i valori di fondo dell’Italia di ieri. Semplicemente, per
utilizzare una metafora cromatica che lo stesso Diamanti ha adoperato altrove[4],
è cambiato il cromatismo: il centro-Italia da «rosso» è divenuto «rosa», combinando
la tradizione del PCI con quella della sinistra DC, mentre il NordEst,
soprattutto nelle zone pedemontane, da «bianco» è diventato «verde». Ma, come sostenuto
da Marco Almagisti nei suoi lavori[5],
il passaggio dall’egemonia della DC al trionfo della Lega è semplicemente l’espressione
diretta di una tendenza di fondo culturale tipica delle aree nordestine: il
localismo combinato con un senso di diffidenza verso ogni centralismo e politiche
di assistenza al Mezzogiorno da parte dello Stato unitario italiano, atteggiamento
affermatosi molto tempo prima dell’avvento del partito di Umberto Bossi.
In sostanza, afferma Diamanti, non
è pensabile che il «clima d’opinione generale» sia influenzato e determinato
unicamente dall’alto, dalle istituzioni, dai leader, dalla politica; al contrario, esso risulta dall’incontro
fra questi stimoli top-down e i «micro-climi»
che si generano autonomamente dal basso. Sono poi i leader a reinterpretare questi micro-climi e a riprodurli «attraverso
le reti sociali e personali che popolano il territorio» (pp. 83-84). Insomma,
secondo Diamanti, «è dunque difficile capire quel che succede nella politica
senza tener conto della vita quotidiana, del senso comune, del territorio.
Senza esplorare in profondità i luoghi dove i partiti, le istituzioni, la
democrazia trovano le basi della loro legittimazione e del loro consenso» (p.
103).
A conclusione di questo sentito pamphlet, le cui tesi di fondo l’autore
ha avuto modo di discutere durante i lavori del Congresso della Società
Italiana di Scienza Politica del 2010 a Venezia, l’invito, rivolto alla
comunità politologica di cui fa parte, è quindi quello di «fare i conti col “senso
comune”, il deposito di credenze e di significati “dati per scontati”; il
tessuto di abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali
noi pensiamo per la maggior parte del nostro tempo”, come recitano Berger e
Luckmann; l’insieme dei frames a cui
ricorriamo per attribuire significato agli eventi e, prima ancora, alle parole
che affollano il nostro mondo, la nostra vita quotidiana» (p. 93); lo stesso
senso comune che emerge dall’invettiva che quella vecchina, incontrata al
supermercato dalla suocera dell’autore, pronuncia contro Prodi, additato quale
responsabile del disastro economico dell’Italia, benché a capo del Governo ci
fosse da anni Berlusconi; quello stesso senso comune che si esprime a livello
popolare dalla tendenza degli elettori a frequentare cerchie di persone che la
pensano allo stesso modo, a seguire trasmissioni televisive che confermano le loro
stesse credenze, a rinunciare al confronto critico, disconoscendo la realtà per
come essa è (p. 78). L’appello, insomma, a recuperare quel «buon senso»
gramsciano volto ad indagare la sfera micro-sociale che spesso diversi suoi
colleghi politologi hanno smarrito, lasciandosi condizionare da un altro «senso
comune», quello che si è imposto per convenzione nella disciplina, col
risultato (negativo e controproducente) di fallire nell’impresa umana (comunque
ardua) di indagare in modo cristallino quella che Nicolò Machiavelli aveva
definito cinquecento anni fa «la verità effettuale della cosa».
[1] Angelo Panebianco, Introduzione, in Angelo Panebianco (a
cura di), L’analisi della Politica,
Il Mulino, Bologna 1989, pp. 13-65.
[2] Gianfranco Pasquino Arturo
Parisi (a cura di), Continuità e
mutamento elettorale in Italia. le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema
politico italiano, Il Mulino, Bologna 1977
[3] Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo. Dalla
democrazia dei partiti alla democrazia del pubblico, Il Mulino, Bologna, 2010
[4] Ilvo Diamanti, Mappe dell’Italia politica. Bianco, rosso,
verde, azzurro e… tricolore, Il Mulino 2009
[5] Ad esempio, Marco
Almagisti, Una democrazia possibile.
Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci 2016
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