(recensione al libro di Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell'Italia contemporanea, editore Carocci, 2016. Già apparsa sul sito web dell'Istituto di Politica e disponibile al seguente link: http://www.istitutodipolitica.it/wordpress/2016/04/27/quando-e-la-storia-che-spiega-lattualita-politica-libreria-linnovativa-ricerca-di-marco-almagisti/).
Come sono cambiate le principali culture politiche italiane nel passaggio
dalla Prima alla Seconda Repubblica? Come sono sopravvissute sino ad oggi? Sotto
quale forma si presenta il capitale sociale oggi? Mediante quali criteri una
democrazia di qualità può essere definita tale? E’ possibile parlare di
democrazia di qualità con riferimento al caso italiano? Sono questi solamente
alcuni dei quesiti di fondo che hanno mosso l’intensa attività di ricerca del
politologo Marco Almagisti negli ultimi quindici anni e che vedono raccolti i
suoi sforzi in quest’ultimo lavoro intitolato Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia
contemporanea (Carocci, 2016). Ispirandosi ai lavori pionieristici sulla
cultura politica e sul capitale sociale, quale ad esempio l’opera di Putnam
(Mondadori, 1993) sul rendimento istituzionale delle regioni italiane – in base
a cui le differenze di rendimento istituzionale di regioni italiani diverse,
pur adottando simultaneamente a partire dal 1970 il medesimo sistema
istituzionale, andrebbero attribuite a tradizioni storico-politiche che
affondano le proprie radici nell’esperienza comunale del Medioevo italiano –
l’autore focalizza l’attenzione sul concetto di «capitale sociale» come
principale fattore esplicativo e presupposto empirico per una democrazia di
qualità. Ricorrendo alla metodologia di ricerca tipica della politologia
storica, Almagisti tenta di spiegare elementi di continuità e di discontinuità
riguardanti il voto, le tradizioni e le pratiche politiche, i riti collettivi,
l’organizzazione della società e delle attività economiche nel passaggio dalla
nascita del Regno d’Italia, passando per il periodo fascista e dal Secondo
dopoguerra ai giorni nostri – con riferimenti storici anche alle vicende
dell’Italia pre-unitaria. La sua riflessione parte dalla presa d’atto che per
studiare i fenomeni politici contemporanei sia necessario superare la diffusa
tendenza di certa politologia al «presentismo», approccio che ritiene di poter
spiegare gli eventi politici contemporanei rinunciando ad un’analisi inserita
in una dimensione storica, per recuperare pienamente un tipo di ricerca
storiografica che cerca anche nel passato le spiegazioni dei fenomeni del
presente. E’ così che al centro della sua analisi vengono poste le cosiddette
«subculture politiche territoriali», ritenute significative nel dar conto
dell’evoluzione delle tendenze del panorama politico italiano, la Toscana
«rossa» ed il Veneto «bianco». Richiamandosi alla definizione di Carlo
Trigilia, per «subcultura politica territoriale», Almagisti intende «”un
particolare sistema politico locale, caratterizzato da un elevato grado di
consenso per una determinata forza e da una elevata capacità di aggregazione e
mediazione degli interessi a livello locale” che si esprime in una fitta rete
istituzionale (partito, Chiesa, gruppi di interesse, associazioni
assistenziali, culturali e ricreative) coordinata dalla forza dominante» (p.
83).

Dunque, perché questo libro? L’autore ha avvertito l’esigenza di fare il
punto della situazione del proprio percorso scientifico in una situazione, come
quella euro-occidentale, in cui ormai da tempo le culture politiche
tradizionali sono state messe a dura prova, da un lato, dalle nuove sfide della
globalizzazione, e, dall’altro, dai processi di mediatizzazione e
personalizzazione della politica che hanno accompagnato, quando non addirittura
accelerato, la crisi dei partiti. In particolare, sul versante italiano si è
assistito al passaggio dagli anni Settanta, caratterizzati dall’affermazione
dei movimenti sociali e dalla violenza politica da entrambe le parti, alla fase
successiva, in cui la tendenza alla personalizzazione della politica ed il
progressivo incedere dei mezzi di comunicazione (in primis, la televisione) ha portato all’emersione di nuovi
modelli di partito, non più radicati territorialmente, ma contraddistinti da
una dimensione «liquida» indotta dalla crisi di identità dovuta alla «fine
delle ideologie» e da un nuovo modo di comunicare e socializzare attraverso la
Rete. La crisi dei partiti e del sistema politico italiano comincia proprio in
quella congiuntura seguita al fallimento del «compromesso storico» e
all’accelerazione impressa dalle vicende degli anni Ottanta (diffusione della
televisione commerciale, nuovi consumi, corruzione dilagante nei partiti dell’establishment, personalizzazione della
politica in fase embrionale, aumento smisurato della spesa pubblica a fronte di
performance non altrettanto in linea
a livello di prodotto nazionale lordo). Le vicende di Tangentopoli,
l’istituzione di una «Seconda» repubblica in seguito allo sfaldamento del
vecchio sistema dei partiti e all’introduzione della nuova legge elettorale
corretta in senso maggioritario (il Mattarellum)
non risolvono, tuttavia, le contraddizioni di fondo del sistema.
Pertanto, non è un caso che, prendendo atto delle tendenze attuali,
l’analisi storico-politologica di Almagisti abbia finito per esaltare, in
maniera assolutamente «laica», le virtù del partito nella funzione di
ancoraggio alla democrazia nascente nel Secondo dopoguerra di grosse fette
della società italiana, evidenziando il ruolo della DC e dello stesso PCI (alla
luce, nonostante tutto, del rapporto ambiguo dato dall’adesione convinta
all’ideologia comunista e al mito della rivoluzione e dal rapporto stretto con
Mosca) quali contenitori «di un’ideologia politica articolata e intensamente
vissuta che funge da fattore di
coagulo, da calmiere, costruendo una prospettiva di lungo periodo, che produce integrazione di sistemi di
interesse e solidarietà, rendendo possibile contemporaneamente una lenta,
quotidiana socializzazione ai codici della democrazia pluralista» [pp. 149-150,
corsivo aggiunto]. Nonostante il carattere di sistema partitico congelato che rendeva
impossibile l’alternanza, il merito della DC e del PCI è stato quello di
approfondire le dimensioni di responsiveness
e accountability che hanno permesso
che si realizzasse in maniera unica l’«ancoraggio alla democrazia». Oggi,
sottoposto alle tensioni suscitate dal potere dei media, il ricco capitale
sociale creatosi nel corsi dei secoli e utile ad un più agevole insediamento
dei partiti nella società, si trova a doversi riorganizzare sotto nuove forme.
Per tale ragione, e contrariamente al senso comune, Almagisti sottolinea la
distinzione fra il fenomeno della tendenza alla personalizzazione e alla
mediatizzazione e quello della «disintermediazione», concetto con cui si
intende «il generale declino dei corpi intermedi e delle realtà associative». Supportato
anche dai dati delle analisi del sociologo Giovanni Moro, l’autore mostra che
se è verosimile la tendenza che vede all’interno delle democrazie contemporanee
la crescita della disaffezione della società dai partiti e dalla politica – a
causa di fenomeni percepiti come sempre più generalmente diffusi quali la
corruzione o la mera «partitocrazia» – dall’altra parte fa notare che le
organizzazioni di cittadinanza attiva legate alla risoluzione di problemi
specifici di natura sociale (tutela dei malati o degli anziani, temi
ambientali, ecc.) mostrano che la nostra società è ancora profondamente intrisa
di vivo e vegeto capitale sociale; la differenza, rispetto al passato, sta nel
fatto che oggi i cittadini cercano nuove forme organizzative a fianco o al di
là di quelle canoniche dei partiti politici.
La parabola della democrazia italiana sembra quindi essere giunta ad un
bivio. Per via dell’incedere dei nuovi fenomeni sociopolitici, Almagisti
ritiene che non ci si possa più compiutamente riferire al concetto di
«subculture politiche territoriali», sebbene la presenza di culture politiche
locali sia ancora ravvisabile in alcune zone della penisola. Ai vecchi cleavage individuati da Rokkan e ben
descritti da Almagisti nel suo libro se ne sono aggiunti altri come quello fra
partiti antiestablishment e partiti
che, invece, si proclamano “custodi” di quel sistema e quello, che ad esso ben
si sovrappone, fra partiti antieuropeisti e partiti filo-europei, fra partiti
antimmigrazione e partiti più inclini all’immigrazione. In Italia, il Movimento
Cinquestelle costituisce proprio un esempio di come ormai larghe fette della
società, mostrandosi insoddisfatte dei metodi e dei riti tradizionali della
politica, considerino ormai i vecchi codici della politica come un retaggio del
passato di cui sbarazzarsi anche a spese della stessa forma di democrazia che
abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni, quella rappresentativa, e
puntano sullo sfruttamento dei nuovi cleavage
per mettere a nudo la carenza di responsiveness
dei partiti di una democrazia ormai «disancorata». In quella che a tutti gli
effetti appare come una «lunga transizione» di cui ancora si fa fatica a
intravedere la fine, Almagisti riesce con una buona dose di ottimismo,
empiricamente fondato, a trovare elementi positivi di fronte alla crisi dei
partiti e allo scollamento a cui è sottoposta la relazione che, un tempo
certamente più forte, lega i cittadini alle istituzioni. Pur con tutti i suoi
limiti e le tensioni che la percorrono da sempre – ai quali si aggiungono
quelle innescate dalla crisi dei mercati finanziari del 2007 che ha portato
all’ascesa in diverse democrazie europee di gruppi e leader «populisti» – la
democrazia italiana è ormai un regime consolidato da settant’anni. Il
ridimensionamento del ruolo pubblico della Chiesa nella «zona bianca» (per
effetto anche della scomparsa di un partito di sua diretta emanazione), così
come il declino del partito nella «zona rossa» sono ragioni per cui, sostiene
Almagisti, non è più opportuno oggi parlare di «subculture politiche
territoriali», benché non abbiano contribuito al tramonto delle culture
politiche locali. La ricchezza di capitale sociale sedimentato nel tempo trova
adesso i suoi referenti nella diffusione a livello locale di associazioni di
cittadinanza attiva. Sebbene l’esperienza dei grandi partiti di massa sia ormai
un mero retaggio del passato, la consapevolezza è che, almeno per il momento,
il ruolo dei partiti nell’incapsulare i conflitti che continuano ad affiorare
sia una necessità ineluttabile. Ed è plausibilmente per ciò stesso che, a
giusto titolo, possiamo concordare con l’autore nel definire il caso italiano
ancora come «una democrazia possibile».
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